#2 | Il multitasking? Non esiste!
Mi spiace dirvelo così, a bruciapelo, ma tanto vale rassegnarsi
Vi è mai capitato di dare a due persone un appuntamento lo stesso giorno, la stessa ora, in due luoghi differenti? A me sì, a dire il vero, ma è stato più frutto della mia distrazione che della mia intenzione, e sono anche stata fortunata perché le due persone si conoscevano e avevano piacere di rivedersi, così che dopo una telefonata di scuse (da parte mia) e una decina di minuti in bicicletta (da parte di una di loro) siamo finite tutte insieme al bar a berci un caffè.
Quella volta mi è andata bene, ma so benissimo che si è trattato di un colpo di fortuna e che, almeno per ora, il dono dell’ubiquità mi sfugge, così come sfugge a tutti noi. Ma allora, se ne siamo così consapevoli, perché tanto spesso chiediamo al nostro cervello di fare, nello stesso momento, due cose anche molto diverse tra loro?
Prendiamo un esempio che, sono sicura, ci riguarda - o, se volete, ci affligge - più o meno tutti: la ricerca delle chiavi di casa (o dell’auto, o dell’armadietto della palestra, o del diario segreto: fate voi). Personalmente, la ricerca delle chiavi di casa è un’attività che, sommando le varie occorrenze, temo richieda ogni anno un discreto numero di ore di vita. Pace, è così. Dal momento che succede anche più volte al giorno che io debba rientrare in casa e, anziché aver provvidenzialmente lasciato le chiavi nella tasca del cappotto, le abbia distrattamente fatte cadere nella mia borsa-zainetto - oppure, viceversa, che sia in procinto di uscire e le chiavi non siano al loro solito posto, appese vicino alla porta d’ingresso - è naturale che, durante i secondi o spesso anche i minuti in cui sono impegnata nella ricerca, cerchi di “ottimizzare i tempi”, riflettendo nel mentre su qualcosa che mi sta a cuore: cosa cucinare per cena, dove andare in vacanza la prossima estate o come affrontare il cliente (o il collega) che mi sta facendo dannare.
Ed ecco il problema: i risultati ottenuti con le tecniche di imaging cerebrale (come la risonanza magnetica funzionale, per esempio, che riesce a evidenziare le zone del cervello in cui l’afflusso del sangue è più abbondante nel momento in cui stiamo svolgendo un determinato compito) indicano una cosa ben precisa: quando riflettiamo, è chiamata in causa proprio la stessa area cerebrale (la corteccia prefrontale laterale) che attinge dati dalla memoria ed è, ovviamente, proprio quella che stiamo sollecitando nel momento in cui cerchiamo le chiavi! Inoltre, come se non bastasse, la ricerca delle chiavi richiede che ci sia stata una «disattivazione» del cosiddetto default mode network, in particolare del lobo temporale mediale e del precuneo (che servono a immaginare e a pensare). Tornando al paragone iniziale, stiamo chiedendo a una stessa area cerebrale di occuparsi di due cose diverse esattamente allo stesso tempo, e questo non è possibile.
Sempre parlando della ricerca delle chiavi perdute, che come avrete capito è una questione che - Proust mi perdoni - mi sta piuttosto a cuore, se qualcuno di voi ha letto il mio libro L’impossibile mappa del cervello (o ha altre fonti sull’argomento) saprà benissimo che, perché i ricordi possano formarsi, è necessario prestare attenzione. Se, quando entro in casa, sono nel bel mezzo di una conversazione telefonica con un’amica che proprio ieri ha incontrato l’ex compagno di banco del mio fidanzatino del liceo, che le ha raccontato quello che è successo a entrambi negli ultimi vent’anni tra matrimoni-divorzi-figli-lavori-partitedicalcettodelgiovedìsera, è molto probabile che se, per qualsiasi motivo, non metto le chiavi nel loro solito posto ma le appoggio chissà dove, quel “chissà dove” sia destinato a rimanere terra incognita. La mia attenzione, concentrata sui dettagli dei gustosi pettegolezzi distaccati resoconti della mia amica, ha impedito che si formasse il ricordo legato al gesto che mi ha portato ad appoggiare le chiavi, per l’appunto, chissà dove. E pertanto, buona fortuna…
Per quanto sia uno strumento meraviglioso e dalle capacità mozzafiato, il nostro cervello non riesce a funzionare in parallelo – in questo senso, è limitato tanto quanto i computer con un sistema operativo più vecchio di due anni, che a un certo punto (succede anche ai Mac, magari non dopo due anni ma dopo dieci, ma succede anche a loro) non sono più in grado di aprire un file video un po’ lungo se, nel frattempo, abbiamo chiesto a Word di cambiare il font in un documento di 5 pagine.
Il multitasking inteso come capacità di fare contemporaneamente due cose insieme, pertanto, non esiste: rassegniamoci.1 Quello che esiste, e che chiamiamo erroneamente multitasking anche se è qualcosa di diverso, è la possibilità di chiedere al cervello lo sforzo di portare avanti due attività svolgendo un pezzettino di ciascun compito per volta e passando dall’uno all’altro con enorme rapidità. Ma è una possibilità che ha un costo cognitivo enorme e dovrebbe ogni volta portarci alla domanda: ne vale davvero la pena?
SapEvatelo: tre variazioni sul tema
Un articolo scientifico uscito nel 2017 che spiega come il mito del multitasking non sia completamente da buttare via: apparentemente, l’idea di “essere multitasking”, da sola, in certe circostanze può servirci a farci sentire più impegnati e, di conseguenza, a rendere meglio - nonostante il fatto di svolgere più di un compito per volta nuoccia, di per sé, alla performance. Se volete, lo potete leggere qui.
Un libro che parla della memoria e dell’immenso scrittore Jorge Luis Borges, scritto dal neuroscienziato argentino che nel 2005 scoprì un nuovo tipo di neuroni associati ai concetti concreti, diventati famosi in tutto il mondo come i “neuroni di Jennifer Aniston”. Lui è Rodrigo Quian Quiroga è il libro è Borges e la memoria. Viaggio nel cervello umano da Funes al neurone Jennifer Aniston, uscito in italiano con la traduzione di Rossella Sardi per Edizioni Erickson nel 2018.
Un video-podcast da guardare in poltrona (o simili) o anche da ascoltare mentre si guida, ma con la consapevolezza che la nostra attenzione in quel caso deve rivolgersi sempre prima alla strada e a ciò che ci circonda. Si tratta di Il tempo di un caffè, che ho avviato a inizio anno insieme a Erika Pilar Pancella ed Emma Lenzi e che, ogni lunedì mattina alle 10, propone una pausa caffè con un ospite sempre diverso per parlare di temi che ruotano attorno alla traduzione e alla scrittura. Lo trovate su YouTube e Spotify.
E tu, hai un libro, un articolo, un film o un qualcos’altro di cui vorresti parlarmi? Puoi farlo lasciando un commento:
Per ora direi che è tutto. Devo confessare che avrei voluto uscire il 15 di gennaio, per mantenere il 15 del mese come data fissa, ma poi come spesso accade la vita ha preso il sopravvento e, dato che il multitasking non esiste, ho dovuto rimandare. Spero, a febbraio, di riuscire a essere più puntuale!
Ci si rilegge tra qualche settimana, a presto!
Eva
Il discorso si fa un po’ diverso quando si parla di attività che richiedono competenze (e attivazione di aree cerebrali) molto diverse tra loro, come per esempio guidare e intanto chiacchierare con chi mi sta seduto al fianco, oppure fare i lavori di casa (stirare, pulire ecc.) mentre ascoltiamo l’ultimo episodio del nostro podcast preferito. Ma qui entra in ballo il problema dell’attenzione, perché quella sì che fa soltanto una cosa per volta: a cosa la rivolgo? Al punto saliente della conversazione o allo specchietto retrovisore? E del calzino rosso che si è infilato surrettiziamente nel bucato dei bianchi, me ne accorgo oppure no?
Lettura divertente! Grazie! Io scrivo montagne di appunti e to do list per cercare di sgombrare il cervello, ma mi rendo conto che spesso cerco intenzionalmente modi di fare almeno 2 cose allo stesso tempo. Come si fa a trovare l'equilibrio tra tutto quello che si vuole leggere/ascoltare/guardare e la quotidianità?
Perfetto l'esempio delle chiavi perché ogni mattina e dico proprio ogni.santa.mattina in questa casa non si trovano le chiavi della macchina 😅